EmilioISGRò
Emilio Isgrò. Var ve yok. Codici ottomani
05.2012–07.2012
Emilio Isgrò. Var ve yok. Codici ottomani
05.2012–07.2012
1/5
Emilio Isgrò
Codice ottomano dell’insonnia, 2010
Acrilico su libro in box di legno e plexiglass
57,5 x 82,5 cm
Codice ottomano dell’insonnia, 2010
Acrilico su libro in box di legno e plexiglass
57,5 x 82,5 cm
Comunicato stampa
“Var Ve Yok”
di Emilio Isgrò
Inaugurazione: 23 maggio 2012
24 maggio – 27 luglio 2012
di Emilio Isgrò
Inaugurazione: 23 maggio 2012
24 maggio – 27 luglio 2012
La Fondazione Marconi è lieta di presentare la mostra di Emilio Isgrò Var Ve Yok, che in turco significa “c’è e non c’è”.
La mostra propone infatti per la prima volta in Italia – dopo una tappa alla Fondazione Boghossian di Bruxelles – i quattordici codici ottomani che l’artista ha creato appositamente per Istanbul “capitale della cultura europea 2010”, nel quadro di una grande retrospettiva dedicata al maestro italiano presso la Taksim Sanat Galerisi.
La mostra, a cura di Marco Bazzini e con scritti dello stesso curatore e di Achille Bonito Oliva, promossa dall’Università Aydin di Istanbul e dal Coppem (Comitato permanente per il partneriato euromediterraneo dei poteri locali e regionali), era organizzata dal “Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci” di Prato e ripercorreva le tappe fondamentali dell’attività di Emilio Isgrò, artista, poeta e scrittore.
Considerato, insieme a Lucio Fontana e Piero Manzoni, tra gli innovatori del linguaggio artistico italiano del secondo dopoguerra, Emilio Isgrò è il padre indiscusso della cancellatura, un atto che ha iniziato a sperimentare dai primi anni Sessanta e che ancora oggi mantiene la stessa vivacità e audacia creativa.
Della cancellatura Isgrò dice: “Alle origini, probabilmente, essa non fu che un gesto: uno dei tanti gesti che gli artisti compivano un tempo per segnare di sé il percorso della vita e del mondo”.
E continua: “Essa mi si è di fatto trasformata tra le mani anno per anno, minuto per minuto, piegandosi meglio di quanto volessi o sperassi al mio desiderio d’artista”.
È infatti il 1964 quando l’autore comincia a realizzare le prime opere intervenendo su testi, in particolare le pagine dei libri, coprendone manualmente gran parte.
Le parole sono cancellate con un segno denso e dello scritto restano leggibili soltanto piccoli frammenti di frasi o un solo vocabolo. Nel tempo si applica alle carte geografiche, ai telex, al cinema, agli spartiti musicali, anticipa le espressioni più tipiche dell’arte concettuale, si declina in installazioni e, con il passaggio dal nero al bianco negli anni Ottanta, questo “segno proibitivamente popolare e pittoricamente inibitorio”, scrive Marco Bazzini, “arriva a risultati pittorici senza cedere alla pittura”.
Il cancellare è un gesto contraddittorio tra distruzione e ricostruzione. Le parole, e successivamente le immagini, non sono oltraggiate dalla cancellatura, ma attraverso questa restituiscono nuova linfa a un significante portatore di più significati: l’essenza primaria di ogni opera d’arte.
La cancellatura è la lingua inconfondibile della sua ricerca artistica che oggi appare come una filosofia alternativa alla visione del mondo contemporaneo: spiega più cose di quanto non dica.
L’ampiezza operativa concessa dalla cancellatura è tutte le volte sorprendente e può arrivare anche a cancellare un’intera mostra, come avvenne a Istanbul.
Da qui anche il titolo Var Ve Yok, che in italiano suona come un “esserci e non esserci”.
La mostra propone infatti per la prima volta in Italia – dopo una tappa alla Fondazione Boghossian di Bruxelles – i quattordici codici ottomani che l’artista ha creato appositamente per Istanbul “capitale della cultura europea 2010”, nel quadro di una grande retrospettiva dedicata al maestro italiano presso la Taksim Sanat Galerisi.
La mostra, a cura di Marco Bazzini e con scritti dello stesso curatore e di Achille Bonito Oliva, promossa dall’Università Aydin di Istanbul e dal Coppem (Comitato permanente per il partneriato euromediterraneo dei poteri locali e regionali), era organizzata dal “Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci” di Prato e ripercorreva le tappe fondamentali dell’attività di Emilio Isgrò, artista, poeta e scrittore.
Considerato, insieme a Lucio Fontana e Piero Manzoni, tra gli innovatori del linguaggio artistico italiano del secondo dopoguerra, Emilio Isgrò è il padre indiscusso della cancellatura, un atto che ha iniziato a sperimentare dai primi anni Sessanta e che ancora oggi mantiene la stessa vivacità e audacia creativa.
Della cancellatura Isgrò dice: “Alle origini, probabilmente, essa non fu che un gesto: uno dei tanti gesti che gli artisti compivano un tempo per segnare di sé il percorso della vita e del mondo”.
E continua: “Essa mi si è di fatto trasformata tra le mani anno per anno, minuto per minuto, piegandosi meglio di quanto volessi o sperassi al mio desiderio d’artista”.
È infatti il 1964 quando l’autore comincia a realizzare le prime opere intervenendo su testi, in particolare le pagine dei libri, coprendone manualmente gran parte.
Le parole sono cancellate con un segno denso e dello scritto restano leggibili soltanto piccoli frammenti di frasi o un solo vocabolo. Nel tempo si applica alle carte geografiche, ai telex, al cinema, agli spartiti musicali, anticipa le espressioni più tipiche dell’arte concettuale, si declina in installazioni e, con il passaggio dal nero al bianco negli anni Ottanta, questo “segno proibitivamente popolare e pittoricamente inibitorio”, scrive Marco Bazzini, “arriva a risultati pittorici senza cedere alla pittura”.
Il cancellare è un gesto contraddittorio tra distruzione e ricostruzione. Le parole, e successivamente le immagini, non sono oltraggiate dalla cancellatura, ma attraverso questa restituiscono nuova linfa a un significante portatore di più significati: l’essenza primaria di ogni opera d’arte.
La cancellatura è la lingua inconfondibile della sua ricerca artistica che oggi appare come una filosofia alternativa alla visione del mondo contemporaneo: spiega più cose di quanto non dica.
L’ampiezza operativa concessa dalla cancellatura è tutte le volte sorprendente e può arrivare anche a cancellare un’intera mostra, come avvenne a Istanbul.
Da qui anche il titolo Var Ve Yok, che in italiano suona come un “esserci e non esserci”.
Questa ambigua valenza, tra presenza e assenza, non è soltanto la radice del gesto di Isgrò, ancora una volta declinato diversamente nell’omonima opera presente in mostra, ma la ritroviamo anche in quel corpo vivo dell’arte come rappresentazione poetica in cui agiscono le dimensioni soggettive e oggettive.
Isgrò, che in tutti questi anni è rimasto indipendente dal mondo dell’arte come soltanto i grandi protagonisti di un’epoca sanno fare, non ha esitato a negarsi quando, nel 1971, ha realizzato Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, per poi ricomparire trentasette anni dopo con il Dichiaro di essere Emilio Isgrò, titolo della grande retrospettiva al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 2008 e della grande cancellatura presente nella collezione dello stesso museo.
Tra i lavori realizzati per Istanbul spicca, con i quattordici codici ottomani cancellati, l’opera Il sorriso di Ataturk. Scrive a questo proposito l’artista: “Un tributo a un ‘cancellatore’ gloriosamente laico, oltreché alieno da ogni fondamentalismo religioso o culturale, che noi europei sentiamo come nostro, e tuttavia turco fino alle midolla, innamorato del proprio paese e, forse, anche delle sue contraddizioni”.
E continua: “Anche un gesto controverso come la cancellazione integrale innesca di fatto un processo dialettico, e per ciò stesso vitale, tra l’essere e il non essere delle cose, tra la morte e la vita delle parole, e persino la lingua ottomana, un tempo annichilita, viene in qualche modo preservata e protetta dallo strato di colore che la occulta e la copre, fino a riemergere provvisoriamente non con il peso nostalgico di una tradizione per fortuna dissolta, bensì con il monito disarmante di Pasolini: 'Solo la rivoluzione salva il passato'. Come dire che per salvaguardare il mondo (non soltanto l’Europa e i paesi che le stanno intorno come la Turchia o la Russia) è a volte necessario scuoterne le fondamenta”.
La mostra di Milano, che nell’allestimento ideato per la Fondazione Marconi marca lo stretto legame che Isgrò ha avuto in tutti questi anni con l’universo del libro, ha come immagine guida Istanbul (2010), una grande carta della Turchia dove sono cancellati tutti i toponimi esclusa la capitale del Bosforo, un modo diverso per fermare l’immagine di questa nazione nella nostra memoria.
Isgrò, che in tutti questi anni è rimasto indipendente dal mondo dell’arte come soltanto i grandi protagonisti di un’epoca sanno fare, non ha esitato a negarsi quando, nel 1971, ha realizzato Dichiaro di non essere Emilio Isgrò, per poi ricomparire trentasette anni dopo con il Dichiaro di essere Emilio Isgrò, titolo della grande retrospettiva al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 2008 e della grande cancellatura presente nella collezione dello stesso museo.
Tra i lavori realizzati per Istanbul spicca, con i quattordici codici ottomani cancellati, l’opera Il sorriso di Ataturk. Scrive a questo proposito l’artista: “Un tributo a un ‘cancellatore’ gloriosamente laico, oltreché alieno da ogni fondamentalismo religioso o culturale, che noi europei sentiamo come nostro, e tuttavia turco fino alle midolla, innamorato del proprio paese e, forse, anche delle sue contraddizioni”.
E continua: “Anche un gesto controverso come la cancellazione integrale innesca di fatto un processo dialettico, e per ciò stesso vitale, tra l’essere e il non essere delle cose, tra la morte e la vita delle parole, e persino la lingua ottomana, un tempo annichilita, viene in qualche modo preservata e protetta dallo strato di colore che la occulta e la copre, fino a riemergere provvisoriamente non con il peso nostalgico di una tradizione per fortuna dissolta, bensì con il monito disarmante di Pasolini: 'Solo la rivoluzione salva il passato'. Come dire che per salvaguardare il mondo (non soltanto l’Europa e i paesi che le stanno intorno come la Turchia o la Russia) è a volte necessario scuoterne le fondamenta”.
La mostra di Milano, che nell’allestimento ideato per la Fondazione Marconi marca lo stretto legame che Isgrò ha avuto in tutti questi anni con l’universo del libro, ha come immagine guida Istanbul (2010), una grande carta della Turchia dove sono cancellati tutti i toponimi esclusa la capitale del Bosforo, un modo diverso per fermare l’immagine di questa nazione nella nostra memoria.