Comunicato stampa
Antonio Dias
Una collezione
Inaugurazione: 21 febbraio
22 febbraio - 14 aprile 2017
Una collezione
Inaugurazione: 21 febbraio
22 febbraio - 14 aprile 2017
Oggi riconosciuto come uno dei principali artisti contemporanei del Brasile, Antonio Dias presenta la sua prima mostra allo Studio Marconi nel 1969, Anywhere is my land.
A questa ne seguiranno altre, nel 1971 e nel 1987 fino ad arrivare al 1995, anno a cui risale l’ultima esposizione dell’artista brasiliano da Giorgio Marconi in cui vengono presentate le opere oggetto dell’attuale mostra.
Nato nel Nord est del Brasile, Dias, di indole ironica e brillante, talvolta pungente e provocatoria, partecipa a diversi gruppi d’avanguardia prima di raggiungere l’Europa.
In aperto contrasto con la dittatura militare stabilitasi nel suo paese, si trasferisce dapprima in Francia dove rimane fino al 1968, grazie al Premio di Pittura della Biennale di Parigi del 1965, per poi eleggere Milano a sua città d’adozione.
In questi anni entra in contatto con la scena artistica internazionale e, in particolare nel capoluogo lombardo, con la cerchia di artisti che gravitano intorno al movimento dell’arte povera, tra cui figurano Luciano Fabro, Giulio Paolini, Gilberto Zorio.
La sua sarà sempre un’arte di rottura che affronterà temi diversi e lo porterà a realizzare opere concettuali sostanzialmente impossibili da etichettare, con una grande varietà di tecniche, subendo l’influenza di diversi movimenti artistici, tra cui la pop art e il minimalismo.
A questa ne seguiranno altre, nel 1971 e nel 1987 fino ad arrivare al 1995, anno a cui risale l’ultima esposizione dell’artista brasiliano da Giorgio Marconi in cui vengono presentate le opere oggetto dell’attuale mostra.
Nato nel Nord est del Brasile, Dias, di indole ironica e brillante, talvolta pungente e provocatoria, partecipa a diversi gruppi d’avanguardia prima di raggiungere l’Europa.
In aperto contrasto con la dittatura militare stabilitasi nel suo paese, si trasferisce dapprima in Francia dove rimane fino al 1968, grazie al Premio di Pittura della Biennale di Parigi del 1965, per poi eleggere Milano a sua città d’adozione.
In questi anni entra in contatto con la scena artistica internazionale e, in particolare nel capoluogo lombardo, con la cerchia di artisti che gravitano intorno al movimento dell’arte povera, tra cui figurano Luciano Fabro, Giulio Paolini, Gilberto Zorio.
La sua sarà sempre un’arte di rottura che affronterà temi diversi e lo porterà a realizzare opere concettuali sostanzialmente impossibili da etichettare, con una grande varietà di tecniche, subendo l’influenza di diversi movimenti artistici, tra cui la pop art e il minimalismo.
Il nucleo di opere della collezione Marconi presentate in questa mostra copre un arco temporale che va dal 1968 al 1972 e offre uno spaccato molto coerente e preciso sulla ricerca artistica del giovane Dias, la cui cifra stilistica è quella di utilizzare un codice pittorico-grafico estremamente ridotto e di indagare sulla natura dei segni, delle categorie dell’immaginazione e sull’andamento difforme e discontinuo delle dinamiche percettive dell’opera, da parte tanto del suo esecutore quanto dei suoi fruitori finali.
Le opere in mostra sono caratterizzate da una pittura grafica, geometrica, in bianco e nero, intesa a ridurre al minimo gli elementi.
Dias elabora un nuovo linguaggio concettuale di non facile comprensione, in parte compensato dall’immediatezza di comunicazione delle parole, qui usate secondo il procedimento di Magritte: “in un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini.”
In realtà, la parola non ha alcun valore denotativo dell’immagine, al contrario si disperde, dissolvendo i significati. Anche i titoli attribuiti alle opere sono considerati al pari di particelle, nessuna rappresenta se stessa.
E se in un primo tempo lo spettatore è indotto a credere in un intimo specifico significato, presto si accorge che l’insieme delle parole portano invece a una sorprendente rivelazione: sono tutte false. Come nei giochi linguistici del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, dove le parole non funzionano come rigide etichette che denotano degli oggetti, poiché questa è solo una delle tante funzioni del linguaggio, uno degli infiniti giochi linguistici possibili, all’artista non interessa l’origine semantica dei quadri e non esiste un unico testo per la verità visiva.
Pittura e parole distribuite sulla tela sono non-immagini, particelle prive di forma.
Let it absorb, Chinese Monument, Environment for the prisoner, The incomplete biography, Do it yourself, desert (stone) sono solo alcuni dei titoli delle opere in mostra, espressioni tra l’enigmatico e l’insignificante, un ready-made tratto dal gergo pubblicitario o da slogan politici, in cui l’associazione parole-immagini è sconnessa e sconcertante.
Eppure esiste un filo conduttore al discorso poetico di Dias, un possibile valore aggiunto in grado di orientare il nostro sguardo. In particolare nella serie The tripper (il viaggiante) è lo stesso artista a spiegarlo, dicendo che l’idea di queste opere risale al 1968, quando ha l’intuizione di sfruttare un’idea preconcetta del pubblico riguardante la sua pittura.
Ha infatti notato che ogni qual volta presenta quadri su fondo nero con dei puntini bianchi, l’unica immagine che i visitatori vedono è quella di un cielo stellato.
Colpito dal bisogno che ognuno di noi ha di vedere immagini diverse da quelle proposte, Dias decide dunque di studiare la dinamica mentale che fa scattare in chi guarda il meccanismo delle analogie visive. Ecco allora che, dopo aver dipinto con la vernice bianca un’infinità di puntini su fondo nero, si mette a tracciare un itinerario, collegando alcuni di essi con una riga bianca.
È una sorta di viaggio il suo, al quale qualcun altro darà tutt’altra connotazione e da un’immagine unica ottiene un’immagine variabile, un campo aperto a molteplici interpretazioni e significati. “…far scattare nello spettatore il meccanismo delle analogie visive, delle proiezioni interiori, oppure il suo raziocinio analitico: questo il movimento continuo, mentale, che mi interessa. Qui non conta il perché della mia scelta, il viaggiante non sono io.” (Antonio Dias, 1995)
Le opere in mostra sono caratterizzate da una pittura grafica, geometrica, in bianco e nero, intesa a ridurre al minimo gli elementi.
Dias elabora un nuovo linguaggio concettuale di non facile comprensione, in parte compensato dall’immediatezza di comunicazione delle parole, qui usate secondo il procedimento di Magritte: “in un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini.”
In realtà, la parola non ha alcun valore denotativo dell’immagine, al contrario si disperde, dissolvendo i significati. Anche i titoli attribuiti alle opere sono considerati al pari di particelle, nessuna rappresenta se stessa.
E se in un primo tempo lo spettatore è indotto a credere in un intimo specifico significato, presto si accorge che l’insieme delle parole portano invece a una sorprendente rivelazione: sono tutte false. Come nei giochi linguistici del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, dove le parole non funzionano come rigide etichette che denotano degli oggetti, poiché questa è solo una delle tante funzioni del linguaggio, uno degli infiniti giochi linguistici possibili, all’artista non interessa l’origine semantica dei quadri e non esiste un unico testo per la verità visiva.
Pittura e parole distribuite sulla tela sono non-immagini, particelle prive di forma.
Let it absorb, Chinese Monument, Environment for the prisoner, The incomplete biography, Do it yourself, desert (stone) sono solo alcuni dei titoli delle opere in mostra, espressioni tra l’enigmatico e l’insignificante, un ready-made tratto dal gergo pubblicitario o da slogan politici, in cui l’associazione parole-immagini è sconnessa e sconcertante.
Eppure esiste un filo conduttore al discorso poetico di Dias, un possibile valore aggiunto in grado di orientare il nostro sguardo. In particolare nella serie The tripper (il viaggiante) è lo stesso artista a spiegarlo, dicendo che l’idea di queste opere risale al 1968, quando ha l’intuizione di sfruttare un’idea preconcetta del pubblico riguardante la sua pittura.
Ha infatti notato che ogni qual volta presenta quadri su fondo nero con dei puntini bianchi, l’unica immagine che i visitatori vedono è quella di un cielo stellato.
Colpito dal bisogno che ognuno di noi ha di vedere immagini diverse da quelle proposte, Dias decide dunque di studiare la dinamica mentale che fa scattare in chi guarda il meccanismo delle analogie visive. Ecco allora che, dopo aver dipinto con la vernice bianca un’infinità di puntini su fondo nero, si mette a tracciare un itinerario, collegando alcuni di essi con una riga bianca.
È una sorta di viaggio il suo, al quale qualcun altro darà tutt’altra connotazione e da un’immagine unica ottiene un’immagine variabile, un campo aperto a molteplici interpretazioni e significati. “…far scattare nello spettatore il meccanismo delle analogie visive, delle proiezioni interiori, oppure il suo raziocinio analitico: questo il movimento continuo, mentale, che mi interessa. Qui non conta il perché della mia scelta, il viaggiante non sono io.” (Antonio Dias, 1995)